Nell’antichità il viaggio aveva valore soprattutto per spiegare il fato ed era spesso concepito come una sofferenza, un passaggio obbligato: i viaggi descritti nell’Odissea e in Gilgamesh sono decisi dagli dei; il sacrificio e le sofferenze rendevano l’esperienza eroica. Una componente che per una certa analogia persiste ancora oggi, almeno in parte, nella categoria di viaggi “estremi” per l’avventura ad ogni costo. Prove fisiche e psicologiche che sono per il cittadino moderno di forte intensità richiamano ancora l’attenzione dell’uomo; avventure più o meno rischiose nei più disparati luoghi del pianeta, trekking in Nepal, canoa in Indocina o gli sperduti villaggi del Chiapas rivoluzionario e quant’altro l’industria del turismo estremo oggi è in grado di offrire.
Pericoli e fatiche erano, e in un certo senso dunque rimangono, un banco di prova dell’eroismo, del coraggio o anche più semplicemente della determinazione.
Nelle società arcaiche, affrontare lo spazio ignoto era una prova attraverso la quale ogni adolescente passava per accedere alla condizione di adulto a guerriero, un vero e proprio rito di passaggio.
“Presso gli Apache dell’Arizona e della Sonora il giovane alle soglie della maturità doveva abbandonare il villaggio e vagabondare per giorni e giorni in lande desertiche, nudo e senz’armi….Funzione analoga avevano in altre culture l’assunzione di allucinogeni….l’allontanamento dalla comunità, la rivelazione dei misteri.”
Birardi, Francesco, Cronache del buon selvaggio
Oggi nell’uomo viaggiatore è ancora presente il richiamo del mito dell’avventura e il viaggio sovente rappresenta la fuga dal quotidiano. In effetti, quasi tutti prima di partire provano un pochino di tensione, di timore: cosa riserverà il viaggio, andrà bene?