Il Rinascimento, come dice la parola stessa, è un momento di rinascita, di grande rinnovamento e in effetti nella storia del viaggio è una tappa importante.
Il viaggio subisce una specie di ri-orientamento delle mete: avviene lo spostamento dai centri della civiltà europea antica e ci si spinge verso la periferia sempre più lontana di quello che era l’Europa. E’ l’epoca dei viaggi di scoperta.
Per comprendere cosa significava per un mondo che si riteneva civilizzato scoprire l’esistenza di altre popolazioni in terre lontane, possiamo ipotizzare cosa succederebbe oggi se scoprissimo l’esistenza di forme di vita umane su Marte. Siamo nel ‘500, un momento cruciale della storia del viaggio: luoghi e popoli lontani nello spazio vengono fatti coincidere, cioè confrontati, con luoghi e popoli lontani nel tempo. Gli abitanti aborigeni del Nuovo Mondo vennero visti dagli europei (e di conseguenza giudicati) come gli abitanti dell’antichità. E qui viene fuori un aspetto che è forse valido ancora oggi tra i viaggiatori comuni, escludendo cioè gli uomini di scienza che basano il proprio approccio in modo differente: l’uomo comune ha la necessità di fare dei confronti, la esplicita in un parallelo con il sistema di conoscenze nel quale vive ed opera, poichè questo è il primordiale strumento in mancanza di parametri cognitivi.
Così nel Rinascimento, attraverso il confronto, tutto ciò che non era famigliare lo diventava; ogni cosa trovava una spiegazione quindi rientrava nel sistema di conoscenze, diventava fenomeno conosciuto, ma non solo: paragonare gli indigeni agli uomini dell’antichità contribuì alla definizione stessa di sviluppo e di civiltà del Mondo Occidentale.
I viaggi nel Rinascimento contribuirono così alla formazione di una nuova coscienza europea, una coscienza che vedeva al centro del mondo l’Europa cristiana.
Il paganesimo dei popoli appena scoperti rese per i viaggiatori quasi automatica l’applicazione della categoria antichi perché per loro i pagani erano gli tali.
Quei popoli, precristiani poichè vivevano al di fuori della cristianità, come potevano essere percepiti attraverso il confronto? Era possibile poichè essi rappresentavano la prova tangibile di quanto si era appreso attraverso i libri e lo studio della storia.
Per avere una fotografia di questa situazione basta leggere poche righe di un brano:”(…)vanno nudi, non conoscono né pesi né misure, né quella fonte di tutte le disgrazie, il denaro: vivono in un’età dell’oro, senza leggi, senza giudici menzonieri, senza libri, soddisfatti della propria vita, senza preoccuparsi del futuro. Ciò nonostante sono anch’essi perturbati dall’ambizione e dal desiderio di comandare e combattono tra loro cosicchè nemmeno nell’età dell’oro c’è un momento senza guerra”.
L’ ‘immagine che ne deriva deli indigenti è ambigua: da una parte essi sono indigeni, pacifici e adatti ad essere convertiti dall’altra bellicosi e cioè adatti alla schiavitù. La nudità e la mancanza di denaro facevano pensare all’innocenza, come la mancanza di uno stato di leggi o giudici, ma l’elemento della guerra e della bellicosità, sottolineato da tanti viaggiatori, implicava una condizione non più paradisiaca ma umana secondo i canoni occidentali.
E così a seconda degli interessi dei conquistatori, gli indigeni venivano descritti applicando a volte l’idea bucolica di popolo innocente e a volte quella di popoli cannibali e bellicosi. Ignorando di fatto, ogni fattore culturale pre-esistente.
E’ curioso che nel primo libro di Thomas Moore, che ha fatto uso dei racconti di viaggio per costruire una sorta di specchio nel quale gli europei potessero guardarsi e analizzare i propri difetti, gli abitanti di Utopia non fossero pacifici.